Aggiornamento del 10.01.2023

La rotta balcanica è un crocevia di passi e cuori in movimento che in questo periodo sembra aver
spostato il suo baricentro in Serbia, al confine con Ungheria e Romania. Abbiamo pensato che un
modo diretto e umano per cogliere questo flusso fosse quello di calpestare le stesse orme di chi
cammina per quelle terre, di incontrare gli occhi stanchi dei volontari in loco e di ascoltare cos’ha da
dire il vento freddo quando inizia l’inverno.
Già dalla partenza in Italia iniziano gli incontri: a Guido e Mirko del gruppo OpetBalkan
dell’associazione Casa per la Pace Milano APS, si unisce Giulia, cittadina attiva di Vicenza,
condividendo le stesse speranze, qualche dubbio e… uno zainetto pieno di dentifrici.
Durante il viaggio discutiamo sulla situazione generale dei Balcani, sempre difficile da
cogliere per la complessità geopolitica di base. Sembra che in Bosnia ci siano meno persone fisse e
un gran via vai al confine con la Croazia, che sembra abbia ridotto la violenza dei respingimenti da
fine 2021.
Arrivati in Serbia a Šid ascoltiamo volontarie e volontari dell’associazione No Name Kitchen
(NNK): tre volte alla settimana incontrano diverse Persone in Movimento (alla parola “migranti”
spesso usata come un’etichetta spersonalizzante e abusata sui media, preferiamo l’espressione
People on the Move, PoM) che vivono a gruppi di dieci-venti, in sei squat, di cui uno per le famiglie, e
in una casa abbandonata. Nella stessa area ci sono anche tre Campi Ufficiali che ospitano circa
trecento persone, più della capacità regolarmente ammessa. i volontari di NNK non hanno accesso ai
campi ufficiali, quindi passano davanti all’entrata per parlare e ascoltare. Medicinali e visite mediche
sono tra le richieste che emergono più spesso: all’interno, infatti, hanno precedenza donne e
bambini/e e la stragrande maggioranza dei maschi adulti ne sono esclusi.
La casa dei volontari è una costruzione ampia, un edificio di due piani, un cortile aperto con
adiacente tettoia. All’interno trova spazio la cucina per preparare il cibo da distribuire negli squat, un
magazzino per i medicinali e un’ampia lavanderia, dove viene organizzato un efficiente servizio di
lava-asciuga per i vestiti delle persone negli squat o recuperati nella foresta dopo i loro passaggi.

Il servizio lavanderia nella casa di Kuhinja Bez Imena a Šid – Serbia

C’è anche un magazzino di smistamento e stoccaggio per i vestiti con una vetrina che dà sul
marciapiede ben coperta da tende per non attirare troppo l’attenzione dall’esterno: infatti – ci
raccontano – è capitato più di un episodio spiacevole, con cittadini locali sospettosi o intolleranti verso
le attività svolte dai volontari che hanno dato vita gesti offensivi o molesti.
Molto diverse le dinamiche nella città di Subotica, più a nord, che raggiungiamo nel secondo
giorno. I volontari di Kuhinja Bez Imena (nome di NNK in Serbia) hanno qui la propria base. Si trovano
immersi in una grande città e il flusso è decisamente più numeroso. Seguiti da NNK sono, infatti,

cinque ampi squat per un totale di circa 900/1000 persone. Devono sostenere distribuzioni di cibo con
sacchetti separati per ogni singolo per garantire che arrivino equamente a tutte/i, da 50 a 450 a
seconda del sito. Ogni squat è visitato più volte alla settimana, in collaborazione con altre due
associazioni operanti nella zona, Collective Aid e MVI (Medical Volunteer International), una rete di
cruciale importanza per sostenere così tante persone. I medici di MVI – non essendo registrati nel
sistema nazionale serbo – possono fare poco ufficialmente, fanno lezioni e possono fornire prodotti
paramedicali, unguenti senza prescrizione medica. Ma il loro ruolo è fondamentale per monitorare,
curare le ferite, trovare soluzioni insieme ai volontari di NNK e Collective Aid.
Si snoda per circa cinquanta chilometri la doppia barriera di filo spinato, rete elettrica,
telecamere a lunga gittata che separa sin dal 2016 l’Ungheria dalla Serbia. Ci appare – nel nostro
terzo giorno di viaggio – in tutta la sua assurdità, una lunga ferita nella fertile terra carica di umidità;
sembra costruita per frenare un assedio, ma non c’è anima viva a parte noi sotto il cielo bianco
sporco.

La barriera al confine tra Ungheria e Serbia

Ci arriviamo dopo un’ora in auto servita a coprire la distanza tra Subotica e Majdan. Siamo in
compagnia di Barbara, giornalista spagnola, responsabile della comunicazione di NNK. Scendiamo
dall’auto, poco più avanti si vede la struttura per i controlli di frontiera. Ci avviamo sulla capezzagna
parallela al filo spinato. Pochi minuti dopo gli occhi delle telecamere segnalano la nostra presenza alla
polizia di frontiera ungherese, una volante ci affianca, ci chiedono provenienza e motivo della visita.
Risposta: “turismo, curiosi di vedere le barriere”.
In un fossato lì vicino troviamo delle alte scale di alluminio abbandonate, qualche coperta e
un sacco a pelo. Scale usate dai PoM per oltrepassare la barriera, azione resa molto difficile per l’uso
di droni a rilevamento termico e telecamere. Passare è una ruota della fortuna fatta di caso, di
poliziotti più o meno corretti, di velocità del cammino. L’obiettivo dei PoM è entrare e allontanarsi dal
confine per almeno trenta minuti perché i push back illegali sono più frequenti nei pressi della
barriera. Ma si hanno testimonianze di persone fermate oltre 20 km al di là del confine, espulse e
trasferite forzatamente al sud della Serbia, come deterrente per altre.
Barbara riesce a collegarsi con il roaming ungherese così che riusciamo a individuare lo
squat più vicino, a pochi minuti, in una fabbrica abbandonata.

Le Persone in Movimento si rifugiano in fabbriche abbandonate

Appena arrivati all’esterno della struttura vediamo un giovane alto. Lo salutiamo,
presentandoci grazie a Barbara che parla anche un po’ di arabo. Spiega che è una giornalista, che
vorrebbe conoscere meglio la situazione, chiede se tra loro c’è qualcuno con cui parlare in inglese. Il
ragazzo alto capisce, ci conduce all’interno da Amir, a quanto pare l’unico che parla inglese.
All’interno della fabbrica ci sono una dozzina di tende igloo montate attorno alle latte con i
fuochi e alcune aree delimitate da pannelli e coperte, che ci sembrano fungere da cucina, vista la
presenza di stufe di latta con un appoggio per un tegame o il bricco del chai (tè), del tutto
carbonizzati. Stufe rudimentali ma funzionali e con la canna fumaria verso l’esterno. Sappiamo che
sono state montate da BlindSpot, un’associazione di carpentieri tedeschi che Mirko ha conosciuto a
Velika Kladuša. Passano qualche volta all’anno per fare riparazioni alle finestre o ai tetti degli squat e
montare le stufe, forme di aiuto molto concrete e efficaci.

Intorno a noi e Amir si crea un cerchio di persone, dove lui si ritrova a tradurre per gli altri le
domande di Barbara sul loro viaggio, sulla situazione allo squat, i tentativi di game e i rapporti
con le associazioni e i loro bisogni.
La quasi totalità di loro sono provenienti dalla Siria, circa una trentina. Il loro racconto
ripercorre la rotta più comune, la fuga dalla guerra, una lunga permanenza in Turchia per lavorare
sottopagati e cercare di avere visti regolari. Tentativi e attese possono durare anni, finire nel nulla, e
molti decidono di proseguire senza, sulle vie che arrivano in Serbia attraverso Grecia e Macedonia o
Albania e Kosovo.
I numeri in questi campi sono fluidi: ci dicono che fino al giorno prima erano presenti un
gruppo di almeno venti magrebini. Guardandoci intorno è evidente lo stato precario del luogo, che li
protegge a stento dalla pioggia ma non dal freddo e dall’umidità. I fuochi diventano i soli punti dove
stare da svegli, scaldarsi, asciugare vestiti, scarpe e cucinare. Si tengono sempre accesi bruciando di
tutto: ramaglie recuperate nella campagna attorno, spazzatura, plastica e vecchie coperte ormai
inservibili.

Al di fuori della struttura sono collocati i bidoni di acqua potabile che NNK riesce a riempire
prelevando gratuitamente l’acqua dalla stazione dei vigili del fuoco di Subotica.

Con lo scendere del buio alcuni di loro cercheranno di fare il game, come viene chiamato
lungo tutta la Rotta Balcanica, ogni tentativo di superare la frontiera. In quest’area, il percorso
prevede di passare in Romania dove non c’è filo spinato e poi da lì entrare in Ungheria. Ci raccontano
dei numerosi respingimenti e di come l’esito sia del tutto imprevedibile. Non c’è una prassi, tutto
dipende da come decide di reagire chi incontrano. Il più temuto in questa zona è un poliziotto rumeno
che si identifica loro come Nikolas, rompe i cellulari, attua forme di violenza fisica umilianti come
rasare i capelli a forma di croce, spingere in fossati d’acqua e malmenare con forti colpi. I cellulari
sono essenziali per i movimenti, quindi i poliziotti li mandano in pezzi oppure li registrano tramite il
codice Imei. A quanto pare così facendo la polizia di frontiera riesce a identificarli e a bloccare i
numeri.
Alcuni in ciabatte ci chiedono degli scarponi per poter proseguire e gli diciamo che faremo da
tramite con NNK. Chiedono legna per le stufe: è qui che decidiamo quale sarà lo scopo dei fondi
raccolti con la campagna natalizia. E vorrebbero maggior quantità di cibo, nella distro settimanale. Il
Market del centro urbano permette l’ingresso solo una persona alla volta e fa la cresta sui prezzi di
tutto, cibo e sigarette, 5€ per ricaricare la batteria del telefono. Decidiamo di andare noi al negozio per
portare loro un po’ di spesa; si aprono a un sorriso e ci mostrano col telefono le immagini di uova,
pane, olio, patate, tè e zucchero. Dopo la consegna, ci è impossibile rifiutare l’invito nel “salottino” per
prendere il tè insieme, bevuto a turni, vista la presenza di quattro sole tazze. Non ci raggiunge il
traduttore, quindi scambiamo pochissime parole ma tanti sorrisi.

Le essenziali stufe a legna montate negli squat sono l’unica fonte per dare calore e cuocere i cibi e
riunirsi a bere il chai, il tè aromatico che anche a noi viene offerto per ringraziarci.

Tornati a Subotica, nel dopo cena riusciamo a prendere una birra con Chiara, giovane
volontaria di NNK, italiana. Ci racconta la situazione di crescente tensione nell’area. Sembra infatti
che la polizia serba stia facendo rastrellamenti negli squat e trasferimenti dei PoM nei campi ufficiali a
sud della Serbia.
Considerata questa situazione, domenica 27 novembre decidiamo di andare nei pressi di
campi ufficiali di Subotica e Sombor. Non è concesso entrare ma abbiamo l’occasione di parlare con
PoM che stazionano al di fuori. Sono in attesa di un taxi o di capire come fare per la notte, per il cibo,
per il game.
Un ragazzo afgano ci racconta: in Afghanistan non c’è lavoro, ci sono i Talebani, il gesto
eloquente li mima mentre imbracciano il mitra minacciando le donne che vogliono andare a scuola;
anche per lui il passaggio obbligato in Turchia, lavoro precario, attese; ripartire verso le frontiere
chiuse della UE.
La struttura del campo è al completo. Chi resta fuori non ha la card per l’accesso agli spazi
predisposti per dormire e trova riparo nelle altre strutture, stanzoni senza riscaldamento, nessuna
privacy. La card serve anche per ricevere i pasti. Senza card vanno pagati. Apprendiamo che di
recente la Serbia ha concesso un visto a indiani, cubani, burundesi, tunisini; lo ha poi interrotto per le
pressioni politiche dell’Austria. Ci sono anche loro, nel campo di Subotica, meno preparati alla
situazione perché l’arrivo fin qui per loro è stato più facile, via aereo, il difficile arriva ora per entrare in
UE dalla Serbia.
Salta all’occhio il continuo via vai di Taxi, usati dai PoM per movimenti giornalieri ma anche
per i viaggi più lunghi, con prezzi gonfiati e maggiorati. Tanti fanno la cresta a questi disperati,
trovando temporaneo sollievo dalla precarietà dell’economia serba.

Davanti ai campi ufficiali di Subotica o Sambor taxi usati per raggiungere la città e fare spesa

Nel campo di Sombor parliamo con un uomo siriano, 35 anni. Ha una storia particolare, un
alto livello di istruzione, è un artista, un restauratore. Ha provato a entrare legalmente in tutti i modi,

per anni senza successo: ha scritto alle ambasciate, alle agenzie dell’Onu, in Turchia ha richiesto
asilo politico. Nulla. Si è rassegnato a partire raggiungendo il campo a sud della Serbia. Lo descrive in
migliori condizioni rispetto a questi del nord. Vi è rimasto cinque mesi, diventando volontario in cucina
facilitando le comunicazioni grazie alla conoscenza di arabo e inglese. Sogna di raggiungere l’Europa
e restaurare cattedrali. Ha amici in vari paesi, confida di farcela. Si muoverà presto.
Siamo alla fine del nostro breve viaggio di conoscenza. Ancora carichi di emozione per gli
incontri e i racconti, raggiungiamo Zagabria dove incontriamo Maya, fixer di NNK per la Bosnia. Fixer
è la persona locale, con conoscenza delle lingue croata e bosniaca, incaricata di risolvere i problemi
del team di volontari nell’area.
Maya ci aggiorna sulla situazione in Bosnia. Conferma che il numero di PoM è andato
riducendosi e stabilizzandosi rispetto al passato. I push back della polizia croata avvengono con
meno violenza e meno frequenza, forse per effetto dell’entrata della Croazia nello spazio Schengen.
Le persone riescono così a entrare per diversi chilometri e fornire la loro posizione alle associazioni
dei campi ufficiali. La polizia deve così andare a prenderle, non può respingerle. Per le famiglie ci
sono ora due campi, aperti nel 2021 a Zagabria e nel 2022 a Lubiana in Slovenia. Dopo 15 giorni di
quarantena viene data loro una carta per muoversi e possono fare richiesta di asilo alle autorità
croate.
Ma le situazioni in Bosnia restano drammatiche soprattutto per chi non è nei campi ufficiali.
Nei campi ufficiali di Bihać gestiti dallo IOM o dal Cantone, operano ben undici associazioni, in alcuni
casi con progetti finanziati dalla UE, ma hanno scarsa capacità di intervento per chi è fuori dai campi,
negli squat. A queste persone cerca di prestare aiuto NNK perché sono gli emarginati tra gli
emarginati.
Maya ci racconta di una famiglia del Burundi, con bambini, persa di notte fuori Bihać sotto la
pioggia gelida. La polizia ha detto loro di farsi trovare in un punto preciso della strada e attendere
altrimenti sarebbero stati lasciati senza riparo. Hanno atteso ore l’arrivo di qualcuno dal campo
ufficiale dello IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Maya ha dato loro l’occorrente
per coprirsi, ha sollecitato ancora l’arrivo di soccorsi.
Ci riferisce di altre situazioni difficili. Sono stati trovati passaporti di donne burundesi ridotti in
pezzi. In genere, chi viene a piedi lungo la Rotta non porta il passaporto, troppo alto il rischio di
perderlo o di non averlo indietro. Ma queste persone sono arrivate in Serbia via aereo col passaporto:
vederlo gettato a terra spezzettato fa sospettare che siano state vittime di una tratta per farle
prostituire. Non si hanno notizie precise di questi casi.
Abbracciamo Maya comunicando tutta la nostra solidarietà e stima per quello che riescono a
fare in Bosnia come in Serbia.
Nel rientro in Italia riordiniamo gli appunti di viaggio e facciamo una videochiamata con il
gruppo operativo di OpetBosna per un racconto a caldo. Le nostre parole stentano a trasferire
l’intensità di questi pochi giorni, la percezione della sofferenza delle persone in movimento incontrate,
della determinazione e della fatica vista negli occhi dei volontari e delle volontarie che ci hanno
accolto.
Una volta di più cogliamo il significato non solo umanitario ma anche politico del progetto che
portiamo avanti dal 2018. Abbiamo voluto condividere questo nella festa dei quattro anni di
OpetBosna il 3 dicembre 2022 e abbiamo deciso di allargare il nostro raggio d’azione dando origine al
progetto OpetBalkan.

Mirko dal 23 dicembre è volontario in Serbia in appoggio a No Name Kitchen. Resterà fino a
marzo e presto daremo conto delle sue testimonianze…
E allora… OpetBalkan, ancora